Siracusa è una città dalle mille risorse, dalla storia atavica, che affonda le sue radici nell’antichità classica. Fondata dai Corinzi nel 733 avanti Cristo, secondo la datazione di Tucidide, prese in origine il nome di Syrakousai. La colonia crebbe in tempi rapidi e assoggettò molti territori vicini. Fu la principale rivale della capitale fenicia Cartagine, e primeggiò per potenza e ricchezza con Atene, che tentò invano di assoggettarla.
La sua storia millenaria è ben definita grazie all’apporto di numerosi studiosi che hanno dedicato la propria vita per la riscoperta del glorioso passato. Tre di questi vi è l’archeologo roveretano Paolo Orsi, la cui figura è onorata nella cittadina con l’intitolazione del museo archeologico.
Paolo Orsi nacque Rovereto nel 1859. Dopo un primo periodo di insegnamento entrò alla direzione generale delle antichità delle belle arti di Roma. Quindi diventò ispettore di terza classe degli scavi di Siracusa. In questo territorio sostanzialmente inesplorato iniziò le sue indagini archeologiche fin dal 1889, dedicandosi allo studio della preistoria con attenzione ai luoghi dei Sicani, dei Siculi e degli Itali, portando alla luce i resti di Thapsos, Naxos e Megara Hyblaea. Nel 1891 subentrò al Cavallari nella direzione del museo archeologico di Siracusa, dove si dedicò ad ampliare le sale e a incrementare le collezioni.
Per descrivere la figura di Paolo Orsi, possiamo riportare quanto scrisse di lui, un anno dopo la sua morte, l’amico marchese Enrico Gagliardi, anch’egli archeologo, che ospitò Orsi nei suoi soggiorni a Monteleone di Calabria:
«Rivedo il maestro: alta, solida la persona, la nobile testa eretta, la fronte spaziosa, pochi capelli lisci modellavano il cranio, la barbetta grigia, il portamento rigido, quasi militare, lo avrebbero fatto scambiare per un ufficiale; ma un solco profondo sulla fronte e lo sguardo penetrante ben rilevavano in lui l’uomo di studio e di scienza, abituato al diuturno travaglio del pensiero. Il parlare lento, misurato, chiaro, traduceva subito il carattere dell’uomo, diritto e preciso, che attraverso il lavoro senza indugi e senza stanchezza, vedeva netta la meta.
La sua vita austera, d’una semplicità francescana, che rifuggiva dagli onori e da ogni teatrale popolarità, gli ha permesso di operare in silenzio in luoghi disagiati. Dovunque Egli è passato, ha lasciato un’orma profonda; perché niente sfuggiva al suo sguardo, alla sua acuta osservazione; i suoi studi si concentravano subito in limpide e fondamentali pubblicazioni che hanno illustrato intere regioni e periodi oscurissimi, mai prima di lui tentati, e da lui fatti rivivere e resi eloquenti dopo millenni di silenzio.»
Essendomi dedicata allo studio di questa figura, riportato nella storia del romanzo sulla nascita del dramma antico a Siracusa, intitolato “I fantasmi di Dioniso” edito da Morellini, la visita alla città di Rovereto mi ha vista fare tappa fondamentale al museo della città, dove una lapide ricorda il grande archeologo roveretano.
Brano tratto dal romanzo “I fantasmi di Dioniso”:
Il tempo era ormai maturo.
Conosceva molti gentiluomini siracusani già stanchi di sentire ripetere sempre gli stessi no, di vedere il nulla impadronirsi della bellezza, che marciva tra ragnatele polverose e sguardi distratti di pochi passanti.
E poi c’era Paolo Orsi, l’infaticabile cultore del bello, che per un nobile fine avrebbe dato la sua stessa vita.
E lui? Si sarebbe tirato ancora indietro?
Anche il non fare, dopo avere raggiunto la consapevolezza, sarebbe stato un danno.
Il suo silenzio si sarebbe unito all’azione corrosiva dei carretti sulle pietre antiche, delle macine stridenti, delle lavandaie che biancheggiavano le lenzuola alla luce chiara del colle Temenite, dominante sull’ara sacra a Dioniso.
E la Venere, stavolta, sarebbe stata trafugata, col suo assenso complice…
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