La vita di Vincent non è stata così generosa come invece lo è stata la morte, per tale ragione l’artista cerca di scoprire e di raffigurare la sofferenza sua e degli altri, che sente accomunati a sé in una vicinanza degli stati d’animo. Molti dei dipinti esprimono i sentimenti umani, soprattutto di disperazione, sconforto, dolore più intimo. Vincent si è sempre sentito vicino alla povera gente, alla semplicità dei lavoratori più umili, alle persone che riteneva più sincere e schiette nel loro modo di essere.
“Eppure non mi vergogno di dire (anche se so molto bene che la parola umanità non va bene) che da parte mia ho sempre sentito il bisogno di amare una creatura o l’altra, e continuerò a farlo. Preferibilmente una creatura sfortunata o disprezzata o abbandonata, non so perché. Una volta ho curato un povero minatore bruciato per sei settimane o 2 mesi – ho condiviso il mio cibo con un vecchio per un lungo inverno – e non so cos’altro, e ora Sien. Ma fino ad oggi non credo che questo sia stato sciocco o cattivo, lo vedo così naturale e ovvio che non riesco a capire come le persone possano essere così indifferenti l’uno con l’altro normalmente. Lascia che aggiunga che se ho sbagliato, hai fatto male ad aiutarmi in modo così leale – anche questo sarebbe sbagliato, e sarebbe sicuramente assurdo. Ho sempre creduto che ‘amare il prossimo tuo come te stesso’ non sia un’esagerazione, ma lo stato normale delle cose” Lettera di Vincent van Gogh a Theo van Gogh, L’Aia, domenica 23 luglio 1882
“In primavera un uccello in una gabbia sa bene che c’è qualcosa per cui sarebbe utile; sente molto chiaramente che c’è qualcosa da fare ma non può farlo; quello che è non riesce a ricordare chiaramente, e ha idee vaghe e dice a se stesso: ‘gli altri stanno costruendo i loro nidi e facendo i loro piccoli e allevando la covata ‘, e batte la testa contro le sbarre della sua gabbia. E poi la gabbia rimane lì e l’uccello è arrabbiato con la sofferenza. ‘Guarda, c’è un fannullone’, dice un altro uccello che passa: quel tipo è un uomo di piacere. Eppure il prigioniero vive e non muore; niente di quello che succede dentro è palese fuori, lui è in buona salute, è piuttosto allegro sotto il sole. Ma poi arriva la stagione delle migrazioni. Un attacco di malinconia – ma, dicono i bambini che si occupano di lui, ha tutto quello che gli serve nella sua gabbia, dopotutto – ma guarda il cielo fuori, pesante di nuvole temporalesche, e dentro di sé sente una ribellione contro il destino. Sono in una gabbia, sono in una gabbia, e quindi non è vero che non mi manca niente, stupidi! Io, non ho tutto ciò di cui ho bisogno! Ah, per pietà, libertà, essere un uccello come gli altri uccelli!” Vincent van Gogh a Theo van Gogh, Cuesmes, 24 June 1880
“Mio caro Vincent
Ho guardato con molta attenzione i tuoi lavori da quando ci siamo lasciati; prima a casa di tuo fratello e alla mostra degli Indipendenti.
È soprattutto in quest’ultimo luogo che si può giudicare correttamente ciò che si fa, sia per le cose posizionate l’una accanto all’altra, sia per le altre opere vicine. Ti offro i miei sinceri complimenti e per molti artisti sei il più straordinario della mostra. Con le cose della natura sei l’ unico che pensa…. Ho esitato molto a scriverti, sapendo che hai appena avuto una crisi piuttosto lunga, quindi per favore non rispondermi finché non ti senti completamente forte. Speriamo che con il caldo che tornerà, finalmente ti starai bene, l’inverno è sempre pericoloso per te. CordialmenteSempre tuo, Paul Gauguin”
Lettera da Paul Gauguin a Vincent van Gogh, Parigi, intorno a giovedì 20 marzo 1890
“Ho pensato a te fratello, nel mio lungo viaggio attraverso la brughiera in quella sera tempestosa. Ho pensato ad un passaggio, non so da quale libro provenga, due occhi svegli, illuminati da lacrime genuine.
– Ho pensato, sono disilluso, cioè ho creduto in molte cose e ora so che sono in uno stato pietoso. Questi miei occhi, qui in questa tetra serata, si svegliano in solitudine, se ci sono state lacrime di tanto in tanto, perché non dovrebbero essere state strappate da tristezza che illude e allo stesso tempo risveglia le illusioni?”
Vincent van Gogh a Theo van Gogh, Nuenen, intorno a giovedì 6 dicembre 1883
“È perseverando in quelle idee e in quelle cose che finalmente si fa lievitare a fondo con un buon lievito, di tristezza e sempre allegrezza, e che diventerà evidente quando il tempo della fecondità sarà giunto nelle nostre vite, la fecondità delle buone opere. Il raggio dall’alto non sempre brilla su di noi, ed è talvolta dietro le nuvole. Senza quella luce una persona non può vivere e non vale niente, non può fare nulla di buono, e chiunque sostiene che si può vivere senza fede, non preoccupandosi di raggiungere la luce più alta, finirà per essere deluso”
Vincent van Gogh a Theo van Gogh, Amsterdam, mercoledì 3 aprile 1878
“Una moglie è più cara di un’amante? Paghi comunque le amanti, caro signore compratore d’arte, e quelle signore ti ridono dietro alle spalle. Chi è chi ti sta imbrogliando, i signori Goupil & Cie? Le donne immorali o le donne caste? Anche se ho sempre avuto un dolore dopo l’altro con il no, anzi, mai, continuo a tornare con più amore ogni volta. E ho già sperimentato molte più cose buone dei dispiaceri, anche se il dolore era veramente serio, per non dire altro. Si è certi di affondare separatamente, solo insieme si può essere salvati, ecco una delle cose che Michelet può dire semplicemente. A volte sembra che inganni se stesso, ma in seguito si è detto che dopotutto ha ragione. È applicabile anche ai libri di Michelet, bisogna averli amati, poi abbandonati per amore, quindi amare di nuovo.” Lettera di Vincent van Gogh a Theo van Gogh, Etten, Wednesday, 23 November 1881
Completai l’opera disegnando intorno un ambiente all’aria aperta, con fuscelli ed erba che sembravano confortare la povera creatura, attorniandola di tenerezza e di un senso di immedesimazione. Lei lì, nuda, primeggiava nell’afflizione, poiché, in fondo, la sua disperazione era sulla strada, ben visibile a tutti nonostante si volesse celare nel buio delle stanze di una locanda dei bassifondi. Tutti vedevano ciò che avevo davanti, negandolo e nascondendolo al tempo stesso. Perché nessuno faceva niente per evitare il disastro? Tornava forse comodo a qualcuno che una donna sola e disperata restasse alla mercé del primo arrivato? In quel momento desiderai essere famoso e potente per mostrare al mondo intero quanta meschinità si celasse dietro i cappelli lucidi di signori agiati, i corsetti agghindati delle dame e le velette che ricoprono il capo delle donne quando si recano in chiesa.
Volli quindi sottolineare con alcune parole quell’esperienza unica, che mi aveva toccato nel profondo ed era riuscita a farmi tirare fuori tutto l’astio e il rancore che provavo verso la società perbene. Mi sentii confortato dalle letture passate di Jules Michelet inerenti alla figura femminile, da tutelare e rispettare nella sua delicatezza e soavità. Preso dall’impetuosità rimarcai ogni tratto del disegno con il gessetto nero, segnando le pieghe della pelle e infittendo i ciuffi di capelli ondulati che sembravano accarezzare la povera creatura proteggendola all’esterno. Apposi quindi come didascalia una domanda che mi riecheggiò in testa, ripresa dal testo La Femme di Michelet che avevo letto in passato:
«Dolore. Com’è possibile che esista al mondo una donna sola, abbandonata?».
Brano tratto dal romanzo “Vincent in Love, il lavoro dell’anima”