Johanna Bonger è la vera artefice della fama di Vincent van Gogh, permettendo al mondo intero di conoscere il genio di uno degli artisti più amati di tutti i tempi. Johanna a ventisette anni sposa Theo van Gogh, fratello di Vincent, unito all’artista da un fortissimo legame psicologico tanto da morire sei mesi dopo di lui, nel dolore e nella malattia.
Alla morte del marito a Johanna rimane il figlio neonato Vincent, centinaia di dipinti del pittore e le innumerevoli lettere che i fratelli si erano scambiati nel corso della vita.
Il fratello della donna le suggerisce di bruciare tutto, in quanto ritiene che la produzione di Vincent non abbia alcun valore, ma lei crede invece nell’arte del cognato e persevera nella sua intenzione di farla conoscere e apprezzare.
Johanna comincia a catalogare i quadri dell’artista, a organizzare a esposizioni delle sue opere e nel 1914 pubblica il primo volume dell’epistolario.
Fortunatamente anche Theo aveva avuto le stesse intuizioni della moglie e, prima di morire, fa firmare al resto dei parenti una liberatoria sulla produzione artistica di Vincent, che lo rende unico erede e fruitore degli eventuali diritti.
Così Johanna e il piccolo Vincent, nel giro di qualche anno, si troveranno possessori di un patrimonio immenso.
La pubblicazione dell’opera “Vincent in Love – il lavoro dell’anima” edito da Cairo è stata frutto di un insieme di ricerche, approfondimenti, studi e riflessioni condotti da me al fine di restituire al lettore un’immagine estremamente umana e profonda del grandissimo artista.
Il lavoro di narrazione è stato elaborato scandagliando nel profondo la personalità di Vincent, biografia alla mano e, soprattutto, accompagnando la scrittura dall’analisi delle lettere, delle fonti critiche e dal contatto con i luoghi reali in cui è vissuto Van Gogh.
Brano tratto dal romanzo “Vincent in Love – il lavoro dell’anima”:
“Così mi voltai e andai via, fuggii dagli sguardi, dai commenti, dai progetti futuri, non riconoscendomi affatto in quella figura che tutti cercavano di delineare. Non avrei potuto più ascoltare le interpretazioni che la gente tentava di dare alla mia arte, disconoscendole puntualmente e cercando di placare l’impeto di prendere le opere che avevo prodotto, nella loro interezza, e seppellirle. Quanto avrei ancora resistito alla tensione che mi dilaniava quando mi trovavo davanti a un mio dipinto insieme ad altre persone e a dover ascoltare definizioni e descrizioni che rinnegavo, che sentivo lontane? Ma perché mai il senso di ogni lavoro non poteva essere definito ed enunciato chiaramente? Io stesso provavo sentimenti diversi a ogni accostamento, avvertendo la contraddizione di dare un’interpretazione diversa. Mi prese il dubbio che le opere fossero realmente vive e che, dall’interazione con gli altri, potesse nascere ogni qualvolta un dialogo differente. Un pezzo della mia anima era di sicuro lì dentro. E allora che prendessero la loro strada, io non ero in grado di seguirla e non me ne importava neanche più”.
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